San Francisco. 7 gennaio 1904.
Comandante Blake,
mi chiamo Jack London, m’imbarco oggi sul “Siberia”. Direzione Yokohama, Giappone. Compirò il mio ventottesimo compleanno a bordo, sono in compagnia di una serie di molli corrispondenti di guerra in cerca di notizie da inviare ai loro grandi giornali. Io ho solo bisogno di cambiare aria. Questi scribacchini vogliono parlare di questa strana ed esotica guerra fra il gigante europeo e l’insignificante Giappone. Le Figarò ha già pubblicato una vignetta con un minuscolo giapponese in chimono, sospeso su un fragile ponte in bambù, mentre minaccia con un ventaglio un grosso orso russo che lo guarda stupito dall’altra parte del fiume.
C’é James Dunn il fotografo del New York Globe, William Straight di Reuters, Lionel James del Times di Londra e altri giornalisti famosi, fra loro si chiamavano “Avvoltoi” perché si sentono pronti a gettarsi come uccellacci sulle prime notizie di guerra, di spari, di morti, in realtà quelli hanno solo voglia di fumare e bere whiskey su queste poltrone di velluto, io mi porto una macchina fotografica, vorrei “registrare i rumori e gli odori della guerra come gli scarponi dei soldati in marcia e il fumo dei fuochi da campo…”
Quando siamo arrivati a Tokio, ci hanno confinati e rinchiusi nel lusso dell’Imperial Hotel e qualcuno mi ha detto che altri hanno già descritto la battaglia navale sul fiume Yalu del 1895 fra giapponesi e cinesi continuando tranquillamente a bere birra e whisky sul bancone del bar dell’Imperial. Ma io voglio vedere quello che succede al fronte.
Verso la fine di gennaio, ho preso un treno e me ne sono andato a sud, verso Kobe, da lì fino a Moji, davanti allo stretto di Tsushima dove, l’ammiraglio Togo ha annientato la flotta russa salpata quasi un anno prima dal Baltico per un eroico e inutile tentativo di soccorso alle truppe russe già sconfitte.
L’ammiraglio Rozestvenskji fu ferito quattro volte e salvato dai suoi marinai che lo hanno letteralmente estratto dai rottami della sua corazzata in fiamme, la Suvorov.
Prigioniero, ferito, ma vivo.
L’ammiraglio Togo gli ha riservato gli onori del bushido e lo è andato a trovare personalmente nell’ospedale di Sasebo. L’ammiraglio russo era coperto di bende, ma Togo gli ha preso la mano e gli ha detto: ”La sconfitta è sorte che può toccare a chiunque di noi. Nessuno deve vergognarsene. No, importa soltanto fare il proprio dovere. Nei due giorni in cui ha infuriato la battaglia, lei, con tutti i suoi uomini, ha compiuto gesta meravigliose. Vorrei esprimerle il mio rispetto e insieme il mio cordoglio. Spero che lei guarisca al più presto”.
Rozestvenskij sostenne lo sguardo di Togo e riuscì a sussurrare: “ La ringrazio di essere venuto da me. Non mi vergogno più di essere stato vinto da lei”.
Ken-dõ è la via della spada.
Spada e cuore sono la medesima cosa.
L’essenza del Bushido è prepararsi alla morte, mattina e sera, in ogni momento della giornata. Quando un samurai è sempre pronto a morire, solo allora padroneggia la vita.
Jilin, la terra al confine con la Corea.
Sono arrivato a Moji in treno, volevo imbarcarmi per Chemulpo, in Corea, era il punto di raccolta delle armate giapponesi dirette in Manciuria, ho fatto qualche scatto alla gente, alla città fortificata, fino a quando la polizia segreta mi ha arrestato come spia e mi ha confiscato la macchina fotografica. C’è voluto il ministro degli esteri americano Lloyd Griscom per farmela recuperare.
L’8 febbraio mi sono reso conto che c’erano grossi movimenti di truppe che stavano per attraversare lo stretto di Corea e che la guerra stava per scoppiare davvero, ma non c’era modo di arrivare lassù.
Sono andato al porto e mi sono comprato una giunca, ho trovato tre marinai coreani e mi sono diretto con loro a nord.
L’11 febbraio pioveva e il vento gelido era mischiato a cristalli di onde aguzze come spine che spazzavano il ponte aperto della barca. La temperatura era talmente bassa da ghiacciare l’acqua salata del mare, avevo conosciuto i -50° del Klondike e dello Yukon, ma vi posso assicurare che lì faceva freddo davvero. Non c’erano cabine nelle quali ripararsi, c’era solo una piccola stufa a carbone sul ponte, fumava, puzzava, ma riscaldava poco in mezzo a quel vento che tagliava come un coltello. C’era solo pesce secco e riso, abbiamo rotto l’albero, ma alla fine siamo arrivati a Chemulpo.
“Il mare non è mai stato amico dell’uomo, tutt’al più è stato complice della sua irrequitezza” diceva Joseph Conrad.
Ho comprato una cavalla e un paio di muli e mi sono messo in marcia insieme alla Prima Armata giapponese che muoveva verso nord. Abbiamo attraversato foreste di betulle e valichi innevati e spazzati da venti gelidi, i soldati si acquattavano fra gli alberi e osservavano i drappelli di cavalieri cosacchi in avanscoperta che avanzavano nel loro territorio per valutare le forze nemiche. Erano tranquilli, sicuri del fatto loro.
Io ero sdraiato a terra, ghiacciato, insieme ai fucilieri giapponesi che sembravano radici nella foresta. Ascoltavamo il rumore degli zoccoli e i nitriti dei cavalli, le nuvole di neve sollevate al loro passaggio.
I cosacchi avanzavano, le spade sbattevano baldanzose contro le selle di cuoio.
Si allontanarono e la neve ricopriva le tracce, il silenzio si riprendeva la foresta.
Il grosso dell’esercito giapponese li avrebbe aspettati più a sud, lungo il fiume Yalu.
“Niente, a parte un miracolo, potrebbe arrestare un piano che i giapponesi hanno pianificato e messo in esecuzione”.
“ Ho sprecato cinque mesi della mia vita in questa guerra “ ho confidato un giorno al mio amico Bob Dunn, ma in fondo non era vero perché dopo quell’esperienza ho scritto una parte de “Il vagabondo delle stelle” e la storia del viaggio sulla giunca nel Mar Giallo non è più un resoconto di guerra, ma un brano che fa parte dei miei romanzi.
“Avevamo attraversato lo stretto del Giappone e stavamo entrando nel Mar Giallo in rotta verso la Cina. Scivolavamo verso terra nella luce fredda di un mattino di tempesta, su un mare crudele che ci prendeva di fianco e le cui onde erano alte come montagne. Eravamo nel cuore dell’inverno. In mezzo ai vapori lasciati dalle tormente di neve potevamo di tanto in tanto scorgere la costa…” (Jack London, “Il vagabondo delle stelle”).
Adesso sono pronto al suo incarico comandante Blake troverò una sistemazione nelle isole Shantarsky in attesa di un suo nuovo contatto. Ho avuto le sue istruzioni sulla nave Amurkoe e mi sto preparando a scrivere qualcosa, ma soprattutto ho voglia d'imbarcarmi con lei e partire per cercare quel tesoro.
O forse mi basta solo partire.
A presto.
Jack London
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